Percorso spassoso, nella sua versione originale, frutto dell’esperienza con il gruppo Escursionisti MTB Monterotondo, storici compagni d’avventura, al quale però ho apportato una modifica per raggiungere i ruderi dell’Abbazia di San Martino, sul monte Acuziano, modifica che rende il giro abbastanza più impegnativo. La ciclopica costruzione fu concepita attorno all’anno Mille per delocalizzare l’abbazia di Farfa in un luogo strategicamente più sicuro, ma non venne mai portata a temine ed oggi rappresenta un luogo di grande magia e suggestione.
La traccia del percorso
Partenza da Passo Corese, si può parcheggiare l’auto nell’ampio piazzale adiacente il bar sulla Salaria, si procede in direzione villaggio Martini, prima su asfalto, poi su strada bianca fino a Talocci e Montegrottone, attraversando splendidi tratti di campagna Sabina. Da Montegrottone, anziché salire sul colle di Fara in Sabina, come nel giro classico, si procede verso il monte Acuziano. Giunti ai piedi del monte si svolta in direzione Primecase, procedendo su un marciapiede posto sul lato sinistro di una strada in contromano,fino all’imbocco del sentiero che sale sull’Acuziano.
Guadagnare la vetta dell’Acuziano con bici al seguito non è cosa facile, il sentiero poco battuto si inerpica tra sassi e roccia esposta, scomparendo per lunghi tratti tra fitti cespugli, e la bici va condotta a spinta o addirittura caricata in spalla nei passaggi più impervi. Giunto in cima si svela un paesaggio irreale, da un lato l’ampia distesa della valle del Tevere, di fronte, Fara in Sabina, adagiata sul colle Bruzio, e subito dietro il monte Elci, con i suoi splendidi boschi, tutto avvolto in una candida nebbia che sbiadisce l’orizzonte, lasciando intravedere il Pellecchia e nascondendo alla vista il Terminillo ed il monte Gennaro.
Monte Acuziano ed abbazia di San Martino
Il sole è un tenue alone luminoso in un cielo bianco argento, su cui si staglia l’ocra, l’arancio e il ruggine della sporadica vegetazione arbustiva in veste autunnale. Pian piano nella nebbia prendono forma le imponenti mura dell’abbazia, e il pensiero vola in un mondo fantastico, popolato da dame e cavalieri, signorotti arroganti e monaci silenti, custodi del sapere e della Sapienza. Sono i resti dell’abbazia di San Martino, progettata dall’abate Bernardo II nel 1907, per spostare in un luogo più difendibile l’abbazia di Farfa, schierata a favore dell’imperatore Enrico II contro l’autorità pontificia, ma alla sua morte i lavori furono sospesi. La costruzione venne ripresa dall’abate Adinolfo I nel 1142, dopo il passaggio del monastero sotto il controllo dell’autorità pontificia, ma alla sua morte i lavori furono nuovamente interrotti e la costruzione dell’abbazia non fu mai portata a termine.
L’immagine del luogo è assai suggestiva, mura possenti ed arcate svettanti sopravvissute ai millenni si ergono sulla sommità brulla del monte, incorniciando incantevoli scorci sul borgo arroccato di Fara in Sabina e sul monte Elci, ma l’intera struttura è ormai in disfacimento. La rimozione dei conci delle arcate (delle quali restano tracce visibili) ha indebolito le generose aperture, accelerando il processo di disgregazione operato dal dilavamento meteorico e dalla vegetazione rampicante che avvolge la struttura in un abbraccio mortale. Nessun intervento di consolidamento, neanche un puntello, la costruzione versa in completo stato d’abbandono, rifugio di gruppetti di capre erranti e meta di qualche escursionista più avventuroso.
Si scende sul lato opposto, percorrendo uno stretto sentiero che procede prima sulla cresta brulla, poi in un fitto bosco di lecci e carpino nero, una avvincente discesa tecnica di sicuro interesse per gli amanti del downhill. Dalla sella tra l’Acuziano ed il Bruzio si costeggia Fara in Sabina procedendo su asfalto, poi, giunti sul versante meridionale si imbocca a sinistra su sterrato, entrando nei boschi del monte Elci.
I boschi del monte Elci
Si percorre una vecchia mulattiera lungo il fianco meridionale del monte, ricavata costruendo un muro di contenimento di pietrame a secco verso valle, per ottenere un nastro percorribile di circa un metro di larghezza. La vegetazione arborea è costituita da roverella (Quercus pubescens) intervallata da olivastri, alberi di Giuda (Cercis Siliquastrum) ed acero minore o trilobo (Acer monspessulanum), il più termofilo ed amante della luce fra le specie endemiche presenti nel nostro Paese. Le piante presentano più o meno tutte analoghe caratteristiche di conformazione: appaiono tozze, deformi, a causa della sterilità del suolo ma soprattutto per gli incendi ricorrenti susseguitisi nei secoli, a cui questi antichi patriarchi hanno dovuto assistere impotenti.
La particolare disposizione delle valli in direzione est-ovest, che per l’inclinazione dei raggi solari favorisce fenomeni di autocombustione, la presenza diffusa su tutto il versante di combustibili leggeri, quali foglie e piante erbacee con tempi di preriscaldamento e combustione molto rapidi, aggravata da fattori climatici quali le scarse precipitazioni e l’esposizione a forti venti estivi, costituiscono le cause ambientali che nei secoli hanno favorito la straordinaria incendiosità di questo martoriato territorio (l’ultimo dei quali avvenuto nel 2012, nel corso del quale sono andati in fumo oltre cento ettari di bosco e macchia mediterranea). Ma i fattori ambientali sono stati spesso favoriti da fenomeni antropici, volti allo sfruttamento intensivo a pascolo delle aree boscate, per ottenere i verdi e freschi germogli che tipicamente producono le graminacee dopo essere state bruciate.
La sistematica distruzione della preesistente copertura legnosa e l’oggettiva impossibilità di una sua naturale ricostituzione, ha comportato la progressiva scomparsa dell’originaria vegetazione arborea ed arbustiva, avviando un profondo processo di degradazione di un’importante ambiente naturale, in grado di assicurare molteplici funzioni ecologico-ambientali, paesaggistico-sociali ed economiche. Se da un punto di vista strettamente naturalistico il mantenimento in vita di delicati ecosistemi vegetali ed animali è indispensabile ad assicurare fondamentali funzioni purificanti e disinquinanti, una attenta gestione delle risorse ambientali può costituire un fattore determinante anche sul piano della qualità della vita e, non da ultimo, offrire interessanti opportunità di crescita economica per le aree interne, troppo spesso soggette ad intensi fenomeni di spopolamento.
Siamo ai margini di una delle più popolate aree metropolitane italiane, nella quale risiedono oltre 4,3 milioni di abitanti, un’area di grande richiamo turistico, che ogni anno registra oltre 12 milioni di arrivi (il 70% stranieri), tra i pochi settori, forse l’unico, in costante crescita anche nella fase più buia della crisi (+2% di arrivi nel 2012, +5% nel 2013, +7% tra gennaio ed aprile 2014). Uno straordinario bacino di utenza potenziale assolutamente poco valorizzato, che gravita essenzialmente attorno ai monumenti storici della Città Eterna, ignorando completamente gli straordinari ambienti naturali presenti nelle aree interne. Qualcosa si è fatto con l’individuazione di parchi e riserve naturali, ma resta assolutamente carente la costruzione di un’offerta qualificata in settori di nicchia che in altre aree territoriali italiane stanno registrando un grande sviluppo. Dal turismo eno-gastronomico, nella più recente declinazione centrata sul biologico, al turismo naturalistico, al filone emergente degli sport all’aperto (trekking, mountain bike, parapendio, arrampicata). Su queste attività molte regioni italiane, soprattutto del Nord, hanno saputo costruire una fiorente economia, non solo strutture ricettive, ristoranti e tour operator, anche occasione di sviluppo per associazioni sportive dilettantistiche e culturali, guide storico-naturalistiche e, in molti casi, cogliendo l’opportunità per riconvertire attività manifatturiere in declino verso la produzione di componentistica (anche Hi-Tech) specifica per la pratica degli sport all’aperto e l’escursionismo.
La forra della Linguessa
Sulla via del rientro vale la pena fare una sosta alla cascata della Linguessa. Un salto d’acqua di oltre venti metri in una stretta forra interrompe lo scorrere delle chiare acque del Fosso di Corese. Più in la un ponte ad arco probabilmente di origine romana, sul lato un vecchio mulino ristrutturato ma privato ed inaccessibile (i cani da guardia fanno un gran baccano), tutto immerso in un ambiente naturale di grande bellezza. Ecco un altro posto che conoscono in pochi.
Realizzato in collaborazione con l’amico Giampiero Rughetti, valente rider e appassionato conoscitore dei boschi della zona.